Manon Lescaut

Manon Lescaut

Un grande e disperato sogno d’amore fluttuante nelle sabbie del deserto

Foto Silvia Lelli

Foto Silvia Lelli

Crediti

Teatro dell’Opera di Roma
Teatro Costanzi
Dramma lirico in quattro atti
Libretto di Domenico Oliva, Giulio Ricordi, Luigi Illiaca e Marco Praga Tate
Basato sul romanzo dell’abate Prévost
Musica di Giacomo Puccini
Direttore Riccardo Muti
Regia Chiara Muti

Manon Lescaut Anna Netrebko, Serena Farnocchia
Lescaut Giorgio Caoduro, Francesco Landolfi
Il Cavaliere Renato Des Grieux Yusif Eyvazov
Geronte de Ravoir Carlo Lepore
Edmondo Alessandro Liberatore
L’oste Stefano Meo
Un musico Roxana Constantinescu
Il maestro di ballo Andrea Giovannini
Il lampionaio Giorgio Trucco
Sergente degli arcieri Gianfranco Montresor
Il Comandante di Marina Paolo Battaglia

Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Scene Carlo Centolavigna
Costumi Alessandro Lai
Luci Vincent Longuemare

ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA

Conversazione con Chiara Muti

di Leonetta Bentivoglio

Forse si potrebbe definire un grande e disperato sogno d’amore fluttuante nelle sabbie del deserto l’allestimento che Chiara Muti – giunta alla sua quarta regia operistica (dopo

Sancta Susanna di Hindemith a Ravenna, Dido and Aeneas di Purcell alle Terme di Caracalla e Orfeo e Euridice di Gluck a Montpellier) – dedica a Manon Lescaut di Puccini.

Nata alle scene nel 1893 e ispirata a un romanzo settecentesco di Prévost (Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut), è questa la prima opera in cui Puccini sviluppa appieno le tinte caratteriali di uno dei suoi celebri personaggi femminili vibranti e sofferti, destinati al sacrificio conclusivo in palcoscenico e a un’enorme popolarità presso il pubblico di tutto il mondo. Qui l’epilogo della sorte dell’eroina principiale avverrà nella cornice desolata, ai confini dello stato di New Orleans, in cui Manon e l’amato Des Grieux sostano sfiniti dopo la fuga dal penitenziario. “Simbolicamente quella landa è anche il deserto dell’anima attraverso cui Manon aspira alla propria libertà, e in cui invece si trova ingabbiata” spiega Chiara Muti. “Inseguendo una forma di emancipazione, Manon approda in un luogo di abbandono, solitudine e sperdimento che già abitava in lei, e che da sempre le sta nell’anima. E a tempo di minuetto che Manon spira nel deserto che l’ha accompagnata, imbevuta nei ricordi del suo amante… ‘Le mie colpe travolgerà l’oblio, ma l’amor mio non muor’… L’oblio inghiotte le sue piccole colpe, ma il grande amore che ha suscitato la rende un eterno ideale femmineo. E una donna irraggiungibile, folle, sensibile, gaia, forse superficiale. Ma è il suo tragico destino a renderla un simbolo

immortale”

Per questo ha assunto il deserto come leitmotiv della sua regia?

“Sì. E un contesto che lega tra loro gli avvenimenti così come nella musica emerge il ciclo ritornante dello stesso tema. Passato, presente e futuro si fondono in un unico ambiente scenografico che ci restituisce l’emblema di un fato ineluttabile, già delineato dal princi-pio. Formato dalla sabbia, materia fine e fragile, rappresenta la precarietà e la fragilità della vita umana. Inoltre il deserto può essere metafora del tempo, sospeso e infinito

come i personaggi del romanzo di Prévost”

Tempo significa ricordo…

“Infatti, l’intero racconto, nello spettacolo, viene rievocato come un lungo flashback da Des Grieux, il quale narra l’accaduto quando gli è già alle spalle, riferendo il viaggio di quella donna seppellita nella sabbia. Il trait d’union della narrazione è un libro da cui affiorano i fantasmi della memoria. Ogni volta che Des Grieux ne sfoglia le pagine, la vicenda vissuta con Manon si riappropria di lui. E mentre avanza il percorso del ricordo, si creano le immagini sulla scena – la locanda in cui avviene l’incontro che fulminerà d’amore Des Grieux, il palazzo di Geronte, il porto, il deserto americano… Le varie ambientazioni sono visioni del Settecento, l’epoca del romanzo, ma rivisitato con lo sguardo di un Ottocento un po decadente, il secolo di Puccini. È come se la sabbia creasse miraggi mnemonici facendo risorgere spettri”.

Manon affiora quindi dal passato nella mente di Des Grieux?

“Sì. lI paesaggio in cui sono immersi possiede anche li ricordo dell’ultima immagine di Manon divorata dal deserto che ha sempre perseguito, come ci dimostra l’inizio dell’opera apparentemente allegro ma attraversato da qualcosa di sinistro, dove già s’intravede l’ombra dei successivi eventi. Pur nella sua vaghezza e incoscienza, Manon sente in sé i germi di un’esistenza breve e infelice. Prima di morire, riconoscerà esplicitamente li deserto che reca dentro di sé. ‘lo la deserta donna!… E nel profondo deserto io cado’, canta in quel luogo di solitudine e morte”.

Lo spettacolo non prevede alcuna modernizzazione del libretto?

“No, perché i personaggi di quest’opera non sono dissociabili dall’epoca che ne ha fatto dei miti. Se il si attualizza si finirà per invecchiarli, proprio perché erano profetici quando nacquero, cioè anticipatori e rivoluzionari rispetto al loro tempo. Se per esempio Manon venisse immessa nella nostra epoca, ci apparirebbe come una sciocca frivola e opportunista. Invece, all’interno del suo momento storico, acquista un altro valore”.

Quale?

“All’epoca le donne di ogni classe sociale dovevano riuscire a sfruttare in un modo o nell’altro la loro femminilità per emergere. Manon cerca una propria libertà rompendo le convenzioni. Si fa guidare dall’istinto senza farsi domande, come una bambina. Solo alla fine, di fronte alla consapevolezza del suo deserto interiore, si renderà conto della propria superficialità. Non rinuncia mai a niente, né all’amore né ai soldi. Mostra di saper sfruttare la ricchezza di Geronte, ma vuole anche l’amore di Des Grieux. Esige tutto con innocenza. Utilizza ogni strumento per essere affrancata dalle norme. Ma non è strategica, ed è questo a renderla originale. Le grandi favorite dell’epoca erano di un cinismo assoluto: non sbagliavano un colpo. Invece Manon non è calcolatrice. Vive con leggerezza e poi perde tutto per amore. La passione la travolge fino all’annientamento”.

C’è differenza tra la Manon di Prévost e quella di Puccini?

“Sì. Prévost, che non a caso piaceva molto a De Sade, ne fa una donna immorale, man- data da ragazzina ni convento dal padre che aveva notato ni lei una tendenza al libertinaggio. È una Manon più ‘spinta’ di quella di Puccini, che la rende più positiva e meno amorale. Nell’opera pucciniana, Manon non ha i genitori e li fratello la sfrutta rendendola una vittima”

Manon somiglia a qualche altra grande figura teatrale?

“Nel romanzo di Prévost Manon mi fa pensare a Don Giovanni per la sua smania di pos- sesso e la convinzione di essere nel giusto cercando il proprio piacere e tornaconto. Già concedendosi pareggia i conti con l’amore, e poco importa li far soffrire e umiliare l’altro. Conta prendere li massimo da tutti e sfidare impunemente la sorte. In Manon l’uso del proprio corpo per ottenere ciò a cui ambisce la rende ancor più negativa di Don Giovanni, che essendo un uomo è trattato positivamente da filosofo della seduzione. È curioso vedere come la donna che insegue Don Giovanni, Donna Elvira, ci sembri una pazza isterica e masochista, e non un fedele innamorato come Des Grieux, che in qualità di uomo tradito ci appare non debole, ma amante di profonde qualità. Manon è invece vista come superficiale, nel senso che non merita Des Grieux. E mentre Don Giovanni è un esploratore dei sentimenti, Donna Elvira è solo un’illusa. Per uomini e donne si adottano sempre due misure e due pesi diversi”.

Testo di Chiara Muti

“…Chiara Muti soportò la presión con una dramaturgia audaz e inteligente… la regista italiana se sobrepuso a la adversidad con sus aciertos conceptuales. El primero consiste en la presencia intimidatoria del desierto. Puccini lo ubica al final. Chiara Muti lo enseña desde el principio, remarcando la fatalidad y el fatalismo de la ópera, convirtiendo a los protagonistas en impotentes instrumentos del destino…”

Rubén Amón
EL MUNDO, 6 Marzo 2014

“…regia movimentatissima, con un secondo atto realmente frenetico. Chiara Muti, c’intendiamo. Un capolavoro di paura: che qui significa Angst, angoscia espressionista…”

Mario Bortolotto
IL FOGLIO, 1 aprile 2014

“… Chiara Muti si dimostra artista di grandi sensibilità e intelligenza e anche di cognizione drammaturgica profonda.Ella ci da un settecento francese così plausibile da farmi credere che sarebbe atta persino alla regia d’un Cavaliere della Rosa…. notevole il fatto che ovunque incombano le sabbie del deserto ove la giovane puttana morirà disperatamente piangendo di voler vivere. le scene di un gusto squisito sono di Carlo Centolavigna, mentre i costumi di Alessandro Lai s’ispirano magistralmente a Fragonard…”

Paolo Isotta
IL CORRIERE DELLA SERA, 3 marzo 2014

“…in questa incandescente lettura musicale ha trovato un appropriato sviluppo la regia di Chiara Muti… è il deserto il fil rouge che lega i quattro atti dell’opera e che contempla dall’inizio alla fine l’avventura esistenziale della giovane e bella Manon… tra la musica e la scena si instaura una perfetta corrispondenza, perché se Chiara Muti sfronda la recitazione da vezzosità e svenevolezze, per evocare un settecento concettuale, il maestro sottrae la musica ad inutili e stucchevoli esercizi di stili… per darle essenzialità…”

Osvaldo Scorrano
LA SICILIA, 3 marzo 2014

“…La regia di Chiara Muti si concentra su Manon: un flash (perfette le luci di vincent longuemare) la individua in carrozza, tra la folla; un perno rotante ( grande scenografo Carlo Centolavigna) la fa girare come le bamboline sulle torte nuziali… nel secondo atto, antico e lezioso… ed é questo l’atto più complesso, e il più bello. Con un simbolico lettino da bambola per lei, al posto del tradizionale baldacchino. I costumi di Alessandro Lai, ma anche tutte le scene di insieme, dai gesti alle scarpette, rappresentano un omaggio a Strehler. Controcorrente, coraggioso, soprattutto in questi tempi…”

Carla Moreni
IL SOLE 24 ORE, 2 marzo 2014

“… Sono proprio la polvere, la sabbia, il vento i leitmotive, simbolici e al tempo stesso reali, che attraversano da cima a fondo la mise en scène della Manon Pucciniana immaginata da Chiara Muti… con un lucido procedimento di prolessi narrativa (quello che gli inglesi chiamano Flash forward) il deserto della nuova Orléans, dove Manon troverà la morte nel quarto atto, appare sin dalla scena iniziale della piazza di Amiens. Sullo sfondo della festa … si apre una distesa di sabbia scura sulla quale emergono, come sassi abbandonati, i corpi rannicchiati di donne vestite di bianco. E l’orizzonte della tragedia è già incombente… Ma le lingue sabbiose del deserto penetrano ovunque: nel secondo atto si intravedono dietro l’immenso specchio dell’alcova… nel terzo sono appena una curva ondulata che emerge dal cielo ferroso di Le Havre, nella scena finale diventano soltanto luce, la luce bianchissima della morte. I luoghi “reali” del dramma… diventano dunque soltanto visioni, facce diverse di un unico prisma, quello della “petite âme” di Manon, creatura semplice e al tempo stesso “eroica”…”

Giudo Barbieri
LA REPUBBLICA, 2 marzo 2014

“…e dunque ecco finalmente la Manon nella versione interiore di Chiara Muti, che fa del deserto il luogo dell’anima prima che un sito geografico…”

Lorenzo Tozzi
IL TEMPO, 1 marzo 2014

“…una landa desolata che si trasforma in bara sabbiosa accompagna gli amanti nella regia tersa di Chiara Muti…”

Giovanni Gavazzeni
IL GIORNALE, 1 marzo 2014

“…i quattro atti sono collocati dalla regista, Chiara Muti, in un alveo di deserto ineluttabile, che contempla, dall’inizio alla fine, la desolazione in cui Manon muore di stenti e di arsura tra le braccia del suo cavaliere… il resto… è un gioco molto fine di cromatismi, dune che trascolorano verso l’infinito contro cieli indifferenti come gli Dei di Lucrezio. E Chiara Muti, nell’onda dei bianchi, si concede un secondo tributo estetico: quello al suo Maestro Giorgio Strehler…”

Rita Sala
IL MESSAGGERO, 28 febbraio 2014

“…La lettura musicale ha trovato coerente sviluppo nella messinscena curata da Chiara Muti in singolare ma non scontata sintonia col padre direttore… Ci troviamo in un settecento puramente ideale… la recitazione è stata ripulita di vezzosità e svenevolezze per evocare un settecento puramente concettuale… dove i due protagonisti si trovano in assoluta solitudine in quel deserto che la regia di Chiara Muti ci ha fatto intuire fin dal primo atto…”

Enrico Gatta
il giorno / il resto del carlino/ la nazione, 28 febbraio 2014

“…lo spettacolo romano si avvaleva dell’intervento registico di Chiara Muti che ha tinteggiato la storia di Manon e De Grieux di sfondi corruschi, che ne accompagnavano ovunque la presenza scenica fino ad anticiparne la crudele fine nella landa desolata di una nuova Orleans immaginaria… la presa di distanza registica si denotava nel convulso gestuale andirivieni che scena dopo scena travolgeva personaggi, coro e comparse, come in un vortice, quasi a fare da sfondo a quel misto di passionalità, incostanza, amoralità che è la donnina ideata dall’abate Prévost…”

Giovanni Carli Ballola
IL MATTINO, 7 marzo 2014

“…il senso della predestinazione si leggeva già nella felice lettura scenica di chiara Muti, innovativa nel rispetto della tradizione… sin dalla prefigurazione, sullo sfondo, nella scena iniziale, di quella landa desolata del nuovo mondo dove si consuma il dramma dell’eroina pucciniana…”

Fabrio Brisighelli
IL CORRIERE ADRIATICO, 9 marzo 2014

“…la Manon de nos rêves… Classique et de bon goût, la mise en scène de Chiara Muti… on retient, surtout, le magnifique boudoir du II, dans des tons bleu gris, tout droit sorti d’une toile de Boucher. Les costumes d’époque sont également élégants, et les éclairages très évocateurs…”